mercoledì 13 marzo 2019

La festa del papà e il tempo perduto.



Christina Branco Tudo Isto E Fado (in fondo al post testo e traduzione)


PRIMA DI TUTTO...ma quanto è dolce questa melodia?


Ed ecco che accanto a queste sonorità, dove l'umano si supera sempre e conferma di avere una stilla del Divino dentro di sé, continua la maratona dei festeggiamenti turbo-capitalistici come direbbe Fusaro :) ed io per contrapposizione mi sento di citare un libro che ogni volta mi tocca il cuore come se fosse la prima volta che lo leggo e rimanda il senso di questa festa a qualcosa di più profondo ed intimo.

sabato 2 marzo 2019

Oriana Fallaci: mai più nessuna come te.

Tic-tic-tic-tac…secco e deciso il calloso polpastrello incide sulla carta parola dopo parola calcando i tasti della macchina da scrivere, la fronte corrucciata e lo sguardo severo sul foglio mentre la sigaretta si consuma nella sua solitudine, abbandonata lì sul posacenere. 

Tic-tac-tic-tac…la coltre di fumo si espande senza via di scampo per via delle finestre barricate mentre con una voce roca dalle consonanti aspirate interpreti il tuo scritto, ogni frase sofferta per rendere carne il fatto, il pensiero, il trasporto, il pathos.


Oriana, uno scrittore di genere femminile di radici fiorentine, bella, affascinante, dal carattere impossibile, con attività neuronale elevata e capacità d'azione sconfinata. 

Mi domando se ti abbiamo difesa, valorizzata ma soprattutto mi domando: 

TI RICORDIAMO COME MERITI?

Non so, forse non abbastanza, dovremmo farlo di più. Sai Oriana, ora più che mai siamo nell'era del tuo odiatissimo politically correct e a meno che non si tratti di Nostradamus non è che ci faccia così piacere rivangare predizioni ed avvertimenti, soprattutto perché i tuoi arrivavano come schiaffi vigorosi e non come carezze. Ora gli equilibri sono al limite della corruzione, gli animi stanchi e le schiene ricurve su se stesse percorrono i porfidi con l'occhio perso e distratto.

Non ci sono mai piaciute le strigliate e tu, che nel conflitto ci sei cresciuta eri troppo, sei troppo per noi che siamo bambini indifesi, affidati a false speranze e nascosti da mille maschere che guai a togliercele…

Siamo privi ormai di rabbia, di orgoglio, di passione, di identità personale, culturale. Siamo umanoidi che marciano verso il futuro all'insegna di un travisato "YES WE CAN" e dello svilente "STAY HUNGRY, STAY FOOLISH", stiamo abdicando post dopo post a quel livello della ragione, d'intuizione, di dialettica che hanno fondato tutta la cultura occidentale e che rappresentavano un ancoraggio riflessivo alle tue ricerche, esperienze, al tuo ardore per la vita, alla tua ricerca del Vero, del Giusto, del Buono



"Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei  coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di  lui, che i giovani pretendano  gli  stessi  diritti, le stesse  considerazioni  dei  vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia".       
Platone


Hai incontrato e tradotto questo passo in seconda liceo, l'hai incorniciato e appeso in entrambe le case di tuo possesso a Greve in Chianti e a Manhattan. 
In "Oriana Fallaci intervista a sè stessa - L'Apocalisse" lo ripercorri e poi incalzi: 

"E va da sé che non ne avrei bisogno. La so a memoria, posso recitarla come i preti recitano il Pater Noster… Non sembra scritto per certi italiani d'oggi?"

Sì Oriana, quella rabbrividente mezza pagina dell'ottavo libro della Repubblica "La sete di libertà" è stato scritto ieri per ieri, oggi per oggi, domani per domani. Per gli italiani, quel che resta di loro e per tutti gli altri che sono e verranno, di questo ho timore io.

Tra pochi giorni si festeggia la Donna, io festeggio te. Te che non hai mai minacciato di bruciare il reggiseno e farti crescere i peli sotto le ascelle per dimostrare chissà cosa, per te la differenza fisica credo sia stato un finto problema o a limite se proprio necessario un paragone, sarebbe stato un vanto? 
Tu, dall'aspetto gracile e minuto ti sei infilata la tuta e l'elmetto ti sei fatta strada fino al fronte per toccare con mano l'orrore che si consumava nelle trincee con lo stesso coraggio di un uomo: con più coraggio di qualche uomo!

Non siamo pronti, non saremo mai pronti per accoglierti senza riserve ma ogni giorno in più sarà un giorno in meno senza la lezione di una qualche tua riflessione. Potrei provare a farmi con il pettine la riga in mezzo sulla nuca e disegnarmi l'occhio con l'eyeliner ma non basterebbe, sarebbe l'ennesimo patetico tentativo di definire un contorno che non appartiene a me stessa per trovare una stilla di conforto e compiacimento. 

Tic-tic-tic-tac…continuo ad immaginarti lì seduta, infervorata a scrivere qualche pamplhet su questo presente infetto, incancrenito ed irrecuperabile pronta a darci una bella strigliata...un'altra volta. 

Alcune bieche interpretazioni ti hanno rappresentata come una persona incazzata con la vita deridendoti, altri ti hanno rinnegata per poi pentirsene. Non c'è bisogno di riepilogare il tuo pensiero, uno dei più cristallini e concitati della letteratura italiana che ci ha resi grandi nel mondo e perciò ti rendo omaggio con questa lettera in cui mi sono imbattuta e che aiuta a ricomporre il puzzle della tua persona.

Si tratta di un messaggio dolce, affettuoso, incredulo, disperato che riservasti al tuo intimo amico ormai perduto Pier Paolo Pasolini scritta il 16 novembre 1975, quattordici giorni dopo il suo assassinio:

“Da qualche parte, Pier Paolo, mischiata a fogli e giornali e appunti, devo avere la lettera che mi scrivesti un mese fa. Quella lettera crudele, spietata, dove mi picchiavi con la stessa violenza con cui ti hanno ammazzato. Me la sono portata dietro per due o tre settimane, le ho fatto fare il giro di mezzo mondo fino a New York, poi l’ho messa non so dove e mi chiedo se un giorno la ritroverò. Spero di no. Vederla di nuovo mi farebbe male quanto me ne fece quando la lessi e rimasi intirizzita a fissar le parole, sperando di poterle dimenticare. Non le ho dimenticate, invece. Posso quasi ricostruirle a memoria. Più o meno, così: “Ho ricevuto il tuo ultimo libro. Ti odio per averlo scritto. Non sono andato oltre la seconda pagina. Non voglio leggerlo, mai. Non voglio sapere cosa v’è dentro la pancia di una donna. Mi disgusta la maternità. Perdonami, ma quel disgusto io me lo porto dietro fin da bambino, quando avevo tre anni mi sembra, o forse erano sei, e udii mia madre sussurrare che…”. Non ti risposi. Cosa si risponde a un uomo che piange la sua disperazione di trovarsi uomo, il suo dolore d’essere nato da un ventre di donna? Non era una lettera diretta a me, del resto, ma a te stesso, alla morte che rincorrevi da sempre per mettere fine alla rabbia d’essere venuto al mondo grazie a una pancia gonfia, due gambe divaricate, un cordone ombelicale che si snoda nel sangue. E come consolarti, placarti, di una simile ineluttabilità? Le parole con cui consolarti erano nel libro che tu rifiutavi con ira, l’unico modo per placarti sarebbe stato prenderti fra le braccia: amarti come solo una donna sa amare un uomo. Ma tu non hai mai permesso a una donna di prenderti fra le braccia, amarti. Quel nostro ventre da cui sei uscito ti ha sempre riempito di orrore. Fuorché tua madre, che veneravi come una Madonna messa incinta dallo Spirito Santo, dimenticando che anche tu eri stato legato a un cordone ombelicale che si snoda nel sangue, noi donne ti incutevamo fisicamente un disgusto. Se ci accettavi, era per pietà. Se ci perdonavi, era per volontà. In ogni caso non dimenticavi mai la leggenda che dà a noi la colpa d’aver colto la mela, scoperto il peccato. Odiavi troppo il peccato, il sesso, che per te era peccato. Amavi troppo la purezza, la castità che per te era salvezza. E meno purezza trovavi, più ti vendicavi cercando la sporcizia, la sofferenza, la volgarità: come una punizione. Come certi frati che si flagellano, la cercavi proprio con il sesso che per te era peccato. Il sesso odioso dei ragazzi dal volto privo di intelligenza (tu che avevi il culto dell’intelligenza), dal corpo privo di grazia (tu che avevi il culto della grazia), dalla mente priva di bellezza (tu che avevi il culto della bellezza).

In loro ti tuffavi, ti umiliavi, ti perdevi: tanto più voluttuosamente tanto più essi erano infami. Di loro ci cantavi con le tue belle poesie, i tuoi bei libri, i tuoi bei film. Da loro sognavi d’essere ucciso, prima o poi, per compiere il tuo suicidio. Sono cattiva a dirti questo? Sono crudele anch’io? Forse, ma sei stato tu a insegnarmi che bisogna essere sinceri a costo di sembrare cattivi, onesti a costo di risultare crudeli, e sempre coraggiosi dicendo ciò in cui si crede: anche se è scomodo, scandaloso, pericoloso. Tu scrivendo insultavi, ferivi fino a spaccare il cuore. E io non ti insulto dicendo che non è stato quel diciassettenne a ucciderti: sei stato tu a suicidarti servendoti di lui. Io non ti ferisco dicendo che ho sempre saputo che invocavi la morte come altri invocano Dio, che agognavi il tuo assassinio come altri agognano il Paradiso. Eri così religioso, tu che ti presentavi come ateo. Avevi un tale bisogno di assoluto, tu che ci ossessionavi con la parola umanità. Solo finendo con la testa spaccata e il corpo straziato potevi spegnere la tua angoscia e appagare la tua sete di libertà. E non è vero che detestavi la violenza. Con il cervello la condannavi, ma con l’anima la invocavi: quale unico mezzo per compiacere e castigare il demonio che bruciava in te. Non è vero che maledicevi il dolore. Ti serviva, invece, come un bisturi per estrarre l’angelo che era in te. Io me ne accorsi fin dal primo incontro, quando ci conoscemmo a New York: ormai, dieci anni fa. E quel fatto mi impressionò più del tuo genio esaltante, della tua cultura irritante, della tua fantasia scatenata. Scappavi ogni notte nei quartieri dove neanche i poliziotti osano entrare armati. Non ti stancavi mai di sfidare la turpitudine, toccare l’orrendo, unirti ai relitti maschili dei drogati, degli invertiti, degli ubriaconi. Sia che tu ti recassi nella Bowery o a Harlem o al porto, eri sempre presente dove c’era il male e il pericolo. Arthur Rimbaud in confronto diventava un’educanda. Quante volte ho temuto di sentirmi dire che ti avevano trovato con la gola tagliata o una pallottola in cuore. Una sera te lo confessai. Eravamo dinanzi al Lincoln Center e cercavi un taxi per recarti in un posto che non volevi ammettere. Per l’impazienza apparivi inquieto, tremavi. Mormorai: “Ti farai tagliare la gola, Pier Paolo”. E tu mi fissasti con occhi lucidi e tristi (erano sempre tristi i tuoi occhi, anche quando ridevi), poi rispondesti ironico: “Sì?”. Ricordi, vero, quei giorni a New York? Venivi nel mio appartamento, sedevi sul vecchio divano, chiedevi una Coca-Cola (non ti ho mai visto ubriaco) e mi raccontavi di amare New York perché era sporca, senz’anima. Di quella città straordinaria vedevi soltanto la miseria morale, da ex-colonia dicevi, da sottoproletariato, e una povertà che paragonavi alla povertà di Calcutta, Casablanca, Bombay.

Un pomeriggio esclamasti: “Mi dispiace di non esser venuto qui prima, 20 o 30 anni fa, per restarci. Non mi era mai successo di innamorarmi così d’un Paese. Fuorché in Africa, forse. Ma in Africa vorrei andare e restare per non ammazzarmi. Sì, l’Africa è come una droga che prendi per non ammazzarti. New York invece è una guerra che affronti per ammazzarti”. Eri giunto da Montréal con il treno. Eri sceso a una stazione sotterranea e non avevi trovato un facchino. Con le valigie che ti stroncavano le braccia avevi percorso un tunnel, e in fondo al tunnel c’era una luce accecante. La città t’aveva aggredito con la gloria di un’apparizione: Gerusalemme che appare agli occhi di un crociato, dicesti. I grattacieli invece li vedevi come le Dolomiti, e io ti ascoltavo in preda alla paura: eri solo poeta o anche pazzo? Non avevo mai pensato che New York potesse essere vista come Gerusalemme e i grattacieli come le Dolomiti. Ma in cima a quei grattacieli non volevi salire mai. Quante volte tentai di portarti all’ultimo piano dell’Empire State Building! Ti promettevo: “È come salire sulla vetta di un monte, il vento è pulito lassù”. Mi opponevi sempre una scusa: a te non interessava il vento pulito. Interessava la laidezza della Quarantaduesima Strada, con le sue luci rosse da inferno e i negozi che vendono pornografia. “Ieri, nella Quarantaduesima, ho visto un uomo che stava morendo. In mano aveva un pacchetto. L’ha fissato e poi l’ha scaraventato per terra con collera tale che il pacchetto s’è rotto. Dopo l’uomo s’è appoggiato al muro, è scivolato piano per terra ed è rimasto lì: a morire. Senza che nessuno si fermasse a guardarlo, aiutarlo. Neanch’io. Ma è male questo? È mancanza di pietà? Forse è una forma superiore di pietà. Capisci, lasciare gli altri morire”.
Diventammo subito amici, noi amici impossibili. Cioè io donna normale e tu uomo anormale, almeno secondo i canoni ipocriti della cosiddetta civiltà, io innamorata della vita e tu innamorato della morte. Io così dura e tu così dolce. V’era una dolcezza femminea in te, una gentilezza femminea. Anche la tua voce del resto aveva un che di femmineo, e ciò era strano perché i tuoi lineamenti erano i lineamenti di un uomo: secchi, feroci. Sì, esisteva una nascosta ferocia sui tuoi zigomi forti, sul tuo naso da pugile, sulle tue labbra sottili, una crudeltà clandestina. Ed essa si trasmetteva al tuo corpo piccolo e magro, alla tua andatura maschia, scattante, da belva che salta addosso e morde. Però quando parlavi o sorridevi o muovevi le mani diventavi gentile come una donna, soave come una donna. E io mi sentivo quasi imbarazzata a provare quel misterioso trasporto per te. Pensavo: in fondo è lo stesso che sentirsi attratta da una donna. Come due donne, non un uomo e una donna, andavamo a comprare pantaloni per Ninetto (Davoli, ndr), giubbotti per Ninetto, e tu parlavi di lui quasi fosse stato tuo figlio: partorito dal tuo ventre, e non seminato dal tuo seme. Quasi tu fossi geloso della maternità che rimproveravi a tua madre, a noi donne. Per Ninetto, in un negozio del Village, ti invaghisti di una camicia che era la copia esatta delle camicie in uso a Sing Sing. Sul taschino sinistro era scritto: “Prigione di Stato. Galeotto numero 3678”. La provasti ripetendo: “Deliziosa, gli piacerà”. Poi uscimmo e per strada v’era un corteo a favore della guerra in Vietnam, ricordi? Tipi di mezza età alzavano cartelli su cui era scritto “Bombardate Hanoi”, e ci restasti male. Da una settimana ti affannavi a spiegarmi che il vero momento rivoluzionario non era in Cina né in Russia ma in America. “Vai a Mosca, vai a Praga, vai a Budapest e avverti che lì la rivoluzione è fallita: il socialismo ha messo al potere una classe di dirigenti e l’operaio non è padrone del proprio destino. Vai in Francia, in Italia, e ti accorgi che il comunista europeo è un uomo vuoto. Vieni in America e scopri la sinistra più bella che un marxista come me possa scoprire. I rivoluzionari di qui fanno venire in mente i primi cristiani, v’è in essi la stessa assolutezza di Cristo. M’è venuta un’idea: trasferire in America il mio film su san Paolo”. Della cultura americana assolvevi quasi tutto, ma quanto soffristi la sera in cui due studentesse americane ti chiesero chi fosse il tuo poeta preferito, tu rispondesti naturalmente Rimbaud, e le due ignoravano chi fosse Rimbaud. Per questo lasciasti New York così insoddisfatto? Io direi di no. Direi che lasciasti New York deluso perché non c’eri morto, perché ti eri affacciato sulla voragine e non vi eri caduto. Le notti trascorse in cerca del suicidio t’avevano reso soltanto le guance più scarne, lo sguardo più febbricitante. Mi sento, dicesti, come un bambino cui è stata offerta una torta e poi gliel’hanno sottratta mentre stava per addentarla. Sì, avresti dovuto bere mille altre amarezze prima di trovare qualcuno che ti facesse il dono di ucciderti, regalarti una morte coerente dopo una vita coerente. Dicono che tu fossi capace d’essere allegro, chiassoso, e che per questo ti piacesse la compagnia della gioventù: giocare a calcio, per esempio, con i ragazzi delle borgate. Ma io non ti ho mai visto così. La malinconia te la portavi addosso come un profumo e la tragedia era l’unica situazione umana che tu capissi veramente. Se una persona non era infelice, non ti interessava. Ricordo con quale affetto, un giorno, ti chinasti su me e mi stringesti un polso e mormorasti: “Anche tu, quanto a disperazione, non scherzi!”.

Forse per questo il destino ci fece incontrare di nuovo, anni dopo. Fu a Rio de Janeiro, dov’eri venuto con Maria Callas: in vacanza. I giornali scrivevano che eravate amanti. Lo eravate? So che due volte, nella vita, hai provato ad amare una donna: restandone deluso. Ma non credo che una di queste due donne sia stata Maria. Eravate troppo diversi, troppo divisi esteticamente e psicologicamente e culturalmente. Allo stesso tempo però sembravate così uniti da una misteriosa complicità. Il mio sospetto è che tu l’avessi adottata come sorella, per farle dimenticare l’abbandono di Aristoteles Onassis. Non ti staccavi mai da lei, l’aiutavi perfino a vestirsi e a spogliarsi. Sulla spiaggia le ungevi le spalle perché il sole non gliele arrossasse. Ai ristoranti subivi ogni suo capriccio. Sempre indulgente, paziente, sereno come un infermiere di Lambaréné (città del Gabon dove Albert Schweitzer fondò il suo ospedale, ndr). Sì, c’era in te l’eroismo del missionario che va a curare i lebbrosi, la bontà del santo che subisce il martirio con gioia. Una sera ne parlammo, sul mare di Copacabana, dentro un tramonto di rosa e d’oro. Maria sonnecchiava sulla sabbia, fasciata in un costume da bagno nero, io ti raccontavo delle torture con cui i brasiliani seviziavano i prigionieri politici: il pau de arara, gli elettrochoc. Ma ascoltavi malvolentieri, quasi ti irritasse turbare con tali discorsi un tramonto di rosa e d’oro. Non mi rispondevi neanche. Solo quando ti accorgesti che ciò mi feriva, e io ti aggredii dicendo che allora non eri sincero nelle tue proteste e nelle tue battaglie, eri solo un Narciso che fingeva di battersi contro l’ingiustizia per esaudire la sua vanità, ti mettesti a parlare di Gesù Cristo e di san Francesco. Nessun prete mi ha mai parlato, come te, di Gesù Cristo e di san Francesco. Una volta mi hai parlato anche di sant’Agostino, del peccato e della salvezza come li vedeva sant’Agostino. È stato quando mi hai recitato a memoria il paragrafo in cui sant’Agostino racconta di sua madre che si ubriaca. Ho compreso, in quell’occasione, che cercavi il peccato per cercare la salvezza, certo che la salvezza può venire solo dal peccato, e tanto più profondo è il peccato tanto più liberatrice è la salvezza. Però ciò che mi dicesti su Gesù e su san Francesco, mentre Maria sonnecchiava dinanzi al mare di Copacabana, mi è rimasto come una cicatrice. Perché era un inno all’amore cantato da un uomo che non crede alla vita. Non a caso l’ho usato nel libro che non hai voluto leggere. L’ho messo in bocca al bambino quando interviene al processo contro la sua mamma: “Non è vero che non credi all’amore, mamma. Ci credi tanto da straziarti perché ne vedi così poco, e perché quello che vedi non è mai perfetto. Tu sei fatta d’amore. Ma è sufficiente credere all’amore se non si crede alla vita?”. Anche tu eri fatto d’amore. La tua virtù più spontanea era la generosità. Non sapevi mai dire no. Regalavi a piene mani a chiunque chiedesse: sia che si trattasse di soldi, sia che si trattasse di lavoro, sia che si trattasse di amicizia. Ad Alekos Panagulis, per esempio, regalasti la prefazione ai suoi due libri di poesie. E, verso per verso, con il testo greco accanto, volesti controllare perfino se fossero tradotte bene. Ci ritrovammo per questo, rammenti? Riprendemmo a vederci quando lui fu scarcerato e venne in esilio in Italia. Andavamo spesso a cena, tutti e tre. E mangiare con te era sempre una festa, perché a mangiare con te non ci si annoiava mai. Una sera, in quel ristorante che ti piaceva per le mozzarelle, venne anche Ninetto. Ti chiamava “babbo”. E tu lo trattavi proprio come un babbo tratta suo figlio, partorito dal suo ventre e non dal suo seme. Lasciarti dopocena, invece, era uno strazio. Perché sapevamo dove andavi, ogni volta. E, ogni volta, era come vederti correre a un appuntamento con la morte.

Ogni volta io avrei voluto agguantarti per il giubbotto, trattenerti, implorarti, ripeterti ciò che ti avevo detto a New York: “Ti farai tagliare la gola, Pier Paolo!”. Avrei voluto gridarti che non ne avevi il diritto perché la tua vita non apparteneva a te e basta, alla tua sete di salvezza e basta. Apparteneva a tutti noi. E noi ne avevamo bisogno. Non esisteva nessun altro in Italia capace di svelare la verità come la svelavi tu, capace di farci pensare come ci facevi pensare tu, di educarci alla coscienza civile come ci educavi tu. E ti odiavo quando ti allontanavi su quella automobile con cui i tre teppisti t’avrebbero schiacciato il cuore. Ti maledicevo. Ma poi l’odio si spingeva in un’ammirazione pazza, ed esclamavo: “Che uomo coraggioso!”. Non parlo del tuo coraggio morale, ora, cioè di quello che ti faceva scrivere in cambio di contumelie, incomprensioni, offese, vendette. Parlo del tuo coraggio fisico. Bisogna avere un gran fegato per frequentare la melma che frequentavi tu, di notte. Il fegato dei cristiani che insultati e sbeffeggiati entrano nel Colosseo per farsi sbranare dai leoni. Ventiquattr’ore prima che ti sbranassero, venni a Roma con Panagulis. Ci venni decisa a vederti, risponderti a voce su ciò che mi avevi scritto. Era un venerdì. E Panagulis ti telefonò a casa ma, alla terza cifra, si inseriva una voce che scandiva: “Attenzione. A causa del sabotaggio avvenuto nei giorni scorsi alla centrale dell’Eur, il servizio dei numeri che incominciano con il 59 è temporaneamente sospeso”. L’indomani accadde lo stesso. Ci dispiacque perché credevamo di venire a cena con te, sabato sera, ma ci consolammo pensando che saremmo riusciti a vederti domenica mattina. Per domenica avevamo dato appuntamento a Giancarlo Pajetta e Miriam Mafai in piazza Navona: prendiamo un aperitivo e poi andiamo a mangiare. Così verso le dieci ti telefonammo di nuovo. Ma, di nuovo, si inserì quella voce che scandiva: attenzione, a causa del sabotaggio il numero non funziona. E a piazza Navona andammo senza di te. Era una bella giornata, una giornata piena di sole. Seduti al bar Tre Scalini ci mettemmo a parlare di Franco (Francisco Franco, il dittatore spagnolo, ndr) che non muore mai, e io pensavo: mi sarebbe piaciuto sentir Pier Paolo parlare di Franco che non muore mai. Poi si avvicinò un ragazzo che vendeva l’Unità e disse a Pajetta: “Hanno ammazzato Pasolini”. Lo disse sorridendo, quasi annunciasse la sconfitta di una squadra di calcio. Pajetta non capì. O non volle capire? Alzò una fronte aggrottata, brontolò: “Chi? Hanno ammazzato chi?”. E il ragazzo: “Pasolini”. E io, assurdamente: “Pasolini chi?”. E il ragazzo: “Come chi? Come Pasolini chi? Pasolini Pier Paolo”. E Panagulis disse: “Non è vero”. E Miriam Mafai disse: “È uno scherzo”. Però allo stesso tempo si alzò e corse a telefonare per chiedere se fosse uno scherzo. Tornò quasi subito col viso pallido. “È vero. L’hanno ammazzato davvero”. In mezzo alla piazza un giullare con i pantaloni verdi suonava un piffero lungo. Suonando ballava alzando in modo grottesco le gambe fasciate dai pantaloni verdi, e la gente rideva. “L’hanno ammazzato a Ostia, stanotte”, aggiunse Miriam. Qualcuno rise più forte perché il giullare ora agitava il piffero e cantava una canzone assurda. Cantava: “L’amore è morto, virgola, l’amore è morto, punto! Così io ti piango, virgola, così io ti piango, punto!”. Non andammo a mangiare. Pajetta e la Mafai si allontanarono con la testa china, io e Panagulis ci mettemmo a camminare senza sapere dove.

In una strada deserta c’era un bar deserto, con la televisione accesa. Entrammo seguiti da un giovanotto che chiedeva stravolto: “Ma è vero? È vero?”. E la padrona del bar chiese: “Vero cosa?”. E il giovanotto rispose: “Di Pasolini. Pasolini ammazzato”. E la padrona del bar gridò: “Pasolini Pier Paolo? Gesù! Gesummaria! Ammazzato! Gesù! Sarà una cosa politica!”. Poi sullo schermo della televisione apparve Giuseppe Vannucchi (conduttore del telegiornale Rai, ndr) e dette la notizia ufficiale. Apparvero anche i due popolani che avevano scoperto il tuo corpo. Dissero che da lontano non sembravi nemmeno un corpo, tanto eri massacrato. Sembravi un mucchio di immondizia e solo dopo che t’ebbero guardato da vicino si accorsero che non eri immondizia, eri un uomo. Mi maltratterai ancora se dico che non eri un uomo, eri una luce, e una luce s’è spenta?”
Oriana Fallaci